L’Expo di Milano del 2015 ha attirato l’attenzione sul tema: ai giovani venivano proposti stage non pagati, per “abbellire il curriculum”. La remunerazione corrispondeva alla promessa di trovare un impiego futuro. Dal dibattito che ne è sorto si sono poi sviluppati diversi studi a livello accademico. Ma la gratuità non è un tema nuovo, già il movimento femminista degli anni Settanta ne rivendicava il riconoscimento nell’ambito del lavoro domestico. Oggi però siamo in una fase dove il lavoro gratuito si è esteso al lavoro in generale. La gratuità è divenuta strutturale e sistemica. Le statistiche e le banche dati ufficiali faticano a rendere conto di questo universo sommerso e invisibile. Le testimonianze presenti nel libro mettono l’accento sulle dimensioni coercitive della gratuità, offrendo una tassonomia, una classificazione, delle sue principali forme.
Storie di ordinaria gratuità
Lo sconfinamento illustra in modo lampante come oggi lavoratrici e lavoratori siano sempre più confrontati a ore di lavoro straordinario non retribuite, pause tagliate, lavoro svolto al di là degli obblighi contrattuali, disponibilità non retribuita. Spesso, nel terreno fertile della sotto-occupazione e dei tempi parziali, si insinuano queste ingiunzioni, con tutta la loro violenza. Lo ricorda Claudio, venditore, che racconta di dover lavorare prima e dopo la timbratura del cartellino, regalando all’azienda ore su ore. E se lo fai notare, vieni licenziato come nel suo caso. Oppure, Barbara, allontanata perché si è rifiutata di accettare la modifica del suo salario dal 60% al 40% dovendo però continuare a lavorare come prima. Nella pubblicazione sono raccolte diverse storie di ordinaria gratuità, dal settore pubblico a quello privato, di salariati e di lavoratori indipendenti. Vicende di giovani che si sono visti ingabbiati in stage che si perennizzano nel tempo. La retribuzione è bassa ma la pretesa di competenze alta. Come nel caso della moda, afferma Simona, dove “la tua paga è che devi essere felice di avere un lavoro” e succede di lavorare giorno e notte.
Il silenzio non fa bene
Paradigmatica è la condizione di Leonardo, rider pagato a cottimo 8 franchi a consegna, più 1 franco e 50 centesimi per l’utilizzo del suo scooter. Il rider esemplifica il lavoro digitale caratteristico dell’economia delle piattaforme. Giornate e serate ad aspettare che arrivi un ordine: “Sono stato fuori sul mio mezzo, con lo zaino, disponibile, e non ho guadagnato assolutamente niente”. Il tempo di vita è messo al lavoro, si lavora gratuitamente per poter lavorare. Lo racconta la grafica e web designer Alessia, alle prese con la tendenza dei committenti a giocare al ribasso sul costo della singola prestazione, svalorizzandola. Perché ad esempio, un logo “è solo un disegnino”. Si rinuncia così di fatto a parte della remunerazione, rendendo invisibile il tempo della concezione, della creazione. “Tante volte fai pagare il tempo che ci metti a fare il lavoro ma non tutto il tempo di lavoro”. Le voci raccolte ci parlano del bisogno di riconoscimento e della necessità di contrastare la normalizzazione della gratuità. L’agente di sicurezza Matteo è riuscito ad uscire dal vortice della disponibilità permanente. Non aveva più una vita sociale e familiare perché l’agenzia poteva sempre chiamarlo in servizio. È lui a sottolineare l’importanza di parlarne, di non stare zitti: “Il silenzio non fa bene, bisogna parlare”. Questo è il primo passo. Per poi insistere, come spiegano il conducente di bus e l’addetta al recapito postale intervistati, sulla regolamentazione della disponibilità e dello sconfinamento all’interno della contrattazione collettiva. Fino ad arrivare a immaginare forme di assicurazione del reddito a tutela di chi lavora nell’intermittenza e nella condizione di freelance.
di Samuele Cavalli
La gratuità si paga, di S. Greppi, S. Cavalli e C. Marazzi, 2022, Edizioni Casagrande