Ancora e sempre le analisi rilevano però che la LPar non è molto conosciuta e poco applicata, sia presso i professionisti del diritto, sia presso le stesse lavoratrici. Nelle formazioni in materia di diritto del lavoro viene scarsamente tematizzata, anche se si applica proprio ai rapporti di lavoro, né più né meno del Codice delle obbligazioni, della Legge sul lavoro o delle Leggi sul personale pubblico.
Parità salariale
La parità salariale è sicuramente l’ambito in cui la Lpar è stata maggiormente invocata, con successo alterno. A tale proposito rinvio alle sentenze riassunte sul sito sentenzeparita.ch alla voce ambiti, retribuzione.
Per chi volesse avviare una causa giudiziaria o anche solo discutere con il capo, pare utile dare un consiglio: dedicate attenzione non solo alla questione a sapere se il lavoro del collega è paragonabile/uguale al vostro. Preparatevi all’eventualità che il datore di lavoro riesca a provare che vi è un motivo oggettivo per una differenza
salariale. Potrebbe allora non essere giustificata comunque l’ampiezza della differenza: compiti diversi possono giustificare una differenza salariale, ma magari non così elevata. Questa eventualità va discussa e argomentata sin da subito, perché far valere questo argomento solo in sede di appello o davanti al Tribunale federale è troppo tardi.
Dal 1. luglio 2020, le imprese con almeno 100 collaboratori hanno l’obbligo di effettuare un’analisi interna della parità salariale, la prima volta entro la fine di giugno 2021. L’analisi deve essere verificata entro la fine di giugno del 2022 (art. 13e cpv. 3 LPar). I lavoratori e gli azionisti devono essere informati sul risultato dell’analisi entro la fine di giugno del 2023 (art. 13g e 13h LPar).
L’efficacia di queste analisi dipenderà dall’accuratezza con cui vengono effettuate. Potenziali discriminazioni possono infatti intrufolarsi in vari momenti: nell’allestimento dei man- sionari, nella corrispondenza o meno tra mansionario e lavoro effettivamente svolto, nella scelta dei criteri di valutazione, nella loro assegnazione ecc., col rischio di un gender-washing piuttosto che di un effettivo miglioramento della parità salariale. Non è poi ben chiaro in che modo i datori di lavoro debbano informare lavoratrici e lavoratori sul risultato dell’analisi, e su quali risultati: Il primo risultato di un’analisi statistica è in effetti la differenza salariale tout court tra donne e uomini. Il secondo risultato (regressione di base) considera le caratteristiche individuali costituite da formazione, esperienza professionale e anni di servizio. Già l’anzianità di servizio, se ha conseguenze troppo elevate sullo stipendio, potrebbe però essere un criterio sfavorevole per le donne. Il loro percorso professionale presenta interruzioni più frequenti, per cui fanno più fatica a maturare scatti di anzianità. Per verificare le discriminazioni in senso stretto – e spesso è solo questo risultato (regres- sione estesa) che viene comunicato -, si tiene conto anche dei requisiti legati al posto di lavoro (livello di qualifica richiesto e posizione professionale). Se tuttavia nella regressione di base la disparità salariale discriminatoria è nettamente più ampia che nella regressione estesa, ciò significa che, a parità di qualifiche, nelle posizioni superiori e nei posti di lavoro considerati più impegnativi le donne sono sottorappresentate.
Queste analisi potrebbero ad ogni modo permettere di avviare discussioni sui sistemi salariali, sui motivi che giustificano delle differenze e sulla loro entità. Sarebbe urgente discuterne, anche in un’ottica di ridistribuzione e lotta alla povertà in generale. In fondo, anche la Svizzera si è impegnata a riconoscere il “diritto al lavoro, che implica il diritto di ogni individuo di ottenere la possibilità di guadagnarsi la vita con un lavoro liberamente scelto od accettato”. Nel 2020, in Svizzera quasi mezzo milione di persone (491 900 contro le 480 300 nel 2018) occupava un posto a salario basso. Il 63,5% di queste erano donne. Domandiamoci anche perché alla base della piramide troviamo, tra gli altri, il commercio al dettaglio, la ristorazione, i servizi di alloggio, i servizi personali, e spesso professioni nei settori che la pandemia ci ha in- segnato essere essenziali.
Molestie sessuali
Negli scorsi anni ha riacquistato particolare attenzione anche il tema delle molestie sessuali, non solo sul posto di lavoro. Si tratta di discriminazioni in base al genere e che vanno fermate sin dalle prime battute. Come ha avuto occasione di decidere recentemente il Tribunale amministrativo federale, baciare delle collaboratrici, anche se sulla guancia, una vicinanza eccessiva, stringerle a sé, senza il loro consenso, sono ad ogni modo comportamenti inappropriati. E questo a prescindere della loro qualifica quali molestie sessuali e al di là del fatto se il superiore volesse o meno ottenere favori sessuali.
Il molestatore può essere licenziato, se del caso anche con effetto immediato: in materia di molestie, di principio il rapporto di fiducia è considerato distrutto (o considerevolmente compromesso) quando il molestatore è un quadro con una posizione dominante o che ha una certa influenza nell’impresa. Se le molestie sono meno gravi, la disdetta con effetto immediato presuppone che siano continuate nonostante avvertimento, salvo nei casi in cui un avvertimento sarebbe inutile. Va ad ogni modo ricordato che se la vittima vuole far valere non solo la cessazione delle molestie, ma un’indennità da parte del datore di lavoro, deve provare di essere stata molestata (non si applica l’art. 6 – alleviamento dell’onere della prova). Il datore di lavoro deve essere stato messo a conoscenza delle molestie perpetrate, ma non è intervenuto adeguatamente. Non è per contro necessario aver sporto denuncia penale nei confronti dell’autore delle molestie. Su questo tema consiglio la lettura della sentenza 12.2020.6 della Seconda Camera civile del nostro Tribunale d’appello del 24.09.2020.
Da segnalare inoltre il “kit per preve- nire le molestie sessuali sul posto di lavoro” edito dalla Conferenza svizzera delle/dei delegate/i alla parità (CSP).
Gravidanza e maternità
Per quanto riguarda la protezione dal licenziamento durante la gravidanza e nelle 16 settimane successive, si applica il Codice delle obbligazioni. E’ nulla la disdetta data durante questi periodi. La Lpar però può trovare applicazione in caso di disdetta al rientro dalla maternità o in caso di rifiuto dell’assunzione durante la gravidanza. Diverse sentenze hanno oramai sancito che il licenziamento al rientro dal congedo maternità è presumibilmente discriminatorio. Ci vogliono motivi oggettivi importanti che il datore di lavoro deve provare perché una tale disdetta non sia abusiva. Non è per esempio sufficiente che la sostituta sia più qualificata.
Anche il rifiuto dell’assunzione di un’assicurata a causa di gravidanza e parto cade nel campo di protezione della Legge federale sulla parità dei sessi. Un’assicurata incinta, attiva nel settore della ristorazione per esempio, rimane collocabile e ha diritto alle indennità di disoccupazione anche poco prima del parto.
Su questo punto appare inoltre utile ricordare l’art. 11 cpv. 2 lit. b CEDAW – Convenzione sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione nei confronti della donna: gli Stati firmatari si impegnano a istituire la concessione di congedi di maternità pagati o che diano diritto a prestazioni sociali corrispondenti, con la garanzia del mantenimento dell’impiego precedente, dei diritti di anzianità e dei vantaggi sociali. Questo impegno riguarda ogni ente pubblico, dal Comune alla Confederazione. Una direttiva delle FFS per esempio legava il diritto ad un aumento di stipendio al merito alla condizione di non essere stati assenti per malattia od altro per oltre 6 mesi in un anno. Ciò potrebbe costituire una discriminazione indiretta basata sul sesso (gravidanza e maternità), specialmente se fosse comunque stato possibile procedere ad una valutazione.
Condizioni di lavoro
La Lpar potrebbe inoltre fornire un qualche aiuto nei casi di impiego a tempo parziale se il datore di lavoro chiama a fornire i lavoro non in orari e giorni prestabiliti, ma sull’arco di tutta la settimana secondo le necessità aziendali. Questo rende difficile conciliare lavoro e famiglia, ma anche lavoro e vita privata o secondo impiego. Innanzitutto, già in base al Codice delle obbligazioni (art. 328) e alla Legge sul lavoro (art. 36), il datore di lavoro deve tenere conto degli impegni extraprofessionali dei propri impiegati, in particolare famigliari. Inoltre, in molti settori sono soprattutto le donne a lavorare a tempo parziale, per cui il rifiuto di stabilire giorni e orari fissi di lavoro può costituire una discriminazione indiretta in base al sesso.
Per lo stesso motivo potrebbero essere indirettamente discriminatorie anche condizioni di promozione o accesso a formazioni continue dipendenti dal fatto di lavorare a tempo pieno. Sarebbero campi di applicazione ancora tutti da esplorare – la giurisprudenza al riguardo è scarsa.